In divenire – capitolo uno. Se non puoi scappare, prova a nasconderti.

Passi brevi e veloci, il vecchio si muoveva per i corridoi della casa di cura tirandosi dietro l’asta di una flebo. Una vestaglia azzurrina, portata aperta sul pigiama a righe, gli faceva da mantello.
Camminava rasente al muro, quel vecchio, in silenzio. Gli unici rumori erano quello delle pantofole trascinate sul pavimento e il gocciolio della medicina, ben cadenzati.
Ogni pochi passi, il vecchio si guardava attorno, torceva il collo per buttare occhiate dietro le proprie spalle e quella camminata veloce per lui era già una corsa.
Voltando un angolo troppo in fretta, un lembo della vestaglia andò a sbattere contro il bastone della flebo, producendo un curioso rumore di metallo su metallo, che rimbalzando tra le pareti si scompose in un’eco da carillon. Il vecchio si bloccò, aspettando che il riverbero passasse, orecchie tese per sentire se qualcuno si fosse accorto di lui, se qualcuno lo stesse seguendo.

Niente, nessuno, ma non poteva esserne certo.

Preso un respiro, tanto profondo da diventare fischio, quell’uomo – sempre vecchio – si rimise a camminare, più veloce di prima, più scomposto, e in un attimo quel corridoio vuoto fu tutto un fruscìo e uno sferragliare. Le ruote della flebo iniziarono a cigolare, i vestiti a sfregare, le ossa a scricchiolare e la tasca – quella tasca, quella del lembo, quel lembo lì – riprese a sbattere contro l’asta col suo tono metallico. Doveva fare in fretta, non era più tempo d’esser cauto. Là in fondo c’era l’uscita.
Divenuto ormai una sinfonia di rumori, il vecchio mise finalmente la mano sul maniglione antipanico della porta a vetri. Di là poteva vedere il giardino, deserto in quella giornata d’autunno, la libertà.
Spinse. Non successe niente.
Spinse più forte, successe solo che gli scricchiò il polso.
La porta era bloccata, chiusa, il suo essere a vetri una beffa bella e buona.

Piano B.

Nel buio dell’infermeria, il vecchio stava immobile, schiacciato contro un muro che sapeva esser per metà verdino e per il resto beige. Da dietro l’armadietto dei medicinali, dove si era nascosto, veniva solo il suo respiro trattenuto, un po’ ansito e un po’ sibilo. Anche la flebo s’era zittita, non gocciava più. Tutto era silenzio, stasi. Persino troppo.
Muovendo il braccio più lentamente che poteva, il vecchio si portò una mano all’orecchio e con un gesto microscopico alzò il volume dell’apparecchio acustico. Per un attimo gli sembrò di poter ascoltare il battere del proprio cuore, sensazione subito scalzata dall’ultimo rumore che avrebbe voluto sentire, il cigolio delle suole di gomma di un paio di zoccoli. Quelli di un infermiere. In corridoio. Sempre più vicini, fino a fermarsi.
Era la fine, la conferma gli arrivò anche dalla lama di luce che tagliò la stanza non appena la porta venne aperta. Trattenne il fiato, il vecchio, e tirò in dentro la pancia, il suono della porta che veniva richiusa non avrebbe mai potuto trarlo in inganno, sapeva di non essere più solo nell’infermeria.
I neon scattarono, friggendo un po’ e inondando l’ambiente di una luce troppo bianca.
«Lo so che è qui, riesco a vedere il bastone della flebo.»
Quella voce.
Il vecchio tirò a sé l’asta, con tutta la sua sacca vuota, poi chiuse gli occhi e spense l’apparecchio acustico, nell’estremo tentativo di negare l’ovvio. Attraverso le palpebre serrate, percepì un’ombra arrivargli davanti, larga quanto un’eclissi.
«Se non ti muovi, non può vederti.» disse il vecchio a se stesso, senza però potersi sentire.
Una mano, forte, lo prese per un braccio. Lui si arrese, ormai non aveva più scampo.

Seduto ad un tavolo, nella sala ricreazione, il vecchio malediceva dentro di sé la propria malasorte, ben rappresentata – lo sapeva – da quel maledetto cappellino di carta che gli avevano fatto indossare, con l’elastico che gli segava il mento.
«Non dovrebbe fare quella faccia, oggi è il suo compleanno. C’è anche suo nipote che è venuto a trovarla… »
Odiava quando gli parlavano così. Era vecchio, quel giorno più che mai, ma non era deficiente. Lo sapeva che era il suo compleanno e lo sapeva che c’era suo nipote, era proprio per quello che aveva cercato di scappare.
«Vi lasciamo soli, chissà quante belle cose avrete da raccontarvi, è tanto che non riceve visite.»
Un anno, esattamente un anno, pensò il vecchio. Dal suo ultimo compleanno, quando era toccato alla cognata venirlo a trovare.
I due uomini, il giovane e l’anziano, rimasti soli iniziarono a fissarsi, tra di loro una torta con sopra una candelina accesa. Nessuno dei due aveva voglia di stare lì e questo era chiaro a entrambi.
Quando la candelina fu bruciata interamente e la torta coperta di cera, il vecchio cedette. E parlò.
«Ti ho mai detto di quella volta che sono andato all’Inferno e son riuscito a tornare indietro?»
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo e poi li riportò, esausti, sull’uomo che aveva di fronte.«Sì, zio. Questa storia me l’avrai raccontata un centinaio di volte.» disse il giovane. E ogni volta era diversa, pensò.
«Se non la vuoi risentire, offri a tuo zio una sigaretta, allora, da bravo.»